sabato 17 settembre 2016

mostro di loch ness

Il mostro di Loch Ness, soprannominato anche Nessie, è una creatura leggendaria che vivrebbe nel Loch Ness, un lago della Scozia.Non esiste alcuna prova dell'esistenza del cosiddetto "mostro" e alcune foto che lo ritrarrebbero sono state dimostrate false o non sono ritenute particolarmente significative dal punto di vista scientifico.

Il primo avvistamento[1]fu nell 566: il monaco irlandese Adamnano di Iona descrive, nella sua Vita Sancti Columbae, il funerale di un abitante delle coste del fiume Ness, emissario del Loch Ness, assalito ed ucciso da una "selvaggia bestia marina", uscita strisciando dalle acque, che San Columba scacciò con le preghiere. Fino al ventesimo secolo non esistono altre testimonianze in merito. Alcuni avvistamenti, in cui la sagoma era confusa, sarebbero avvenuti anche sulla terraferma, a partire dal 1930.Il 22 settembre 1933 l'Inverness Courier riferì che nel Loch Ness era stato avvistato uno strano animale: i coniugi MacKay, proprietari di un albergo a Drumnadrochit, una località sulla riva del lago, avevano scorto due strane gobbe emergere dall'acqua. Il "mostro" era stato osservato dalla nuova strada appena costruita sulla riva settentrionale. Nel novembre 1933 venne scattata la prima fotografia da Hugh Gray; essa mostra un lungo "oggetto" sinuoso che nuota in superficie facendo ribollire l'acqua all'intorno. Secondo alcuni si trattava in realtà del labrador retriever dello stesso Gray che nuotava verso la fotocamera e con forse un bastone in bocca; il ricercatore Roland Watson non ha però approvato questa interpretazione, sostenendo che sul lato destro della foto era visibile come una testa simile a quella di un'anguilla.

In dicembre, un cineasta della Scottish Film Productions, Malcolm Irvine, riuscì a girare un film: il "mostro" è visibile per quasi un minuto mentre nuota alla velocità di quindici chilometri l'ora. Irvine nel 1936 fece anche un secondo filmato nel quale si vede quella che può sembrare la testa di un animale alzarsi e abbassarsi a ogni movimento del corpo.
Una delle testimonianze più influenti riguardo al mostro è "La foto del chirurgo" scattata da Robert Kenneth Wilson nei pressi di Invermoriston con l'ausilio dell'amico Maurice Chambers il 19 aprile 1934. La foto finì in prima pagina dello Scottish Daily Record con il titolo "Misterioso oggetto nel Loch Ness". Wilson, in realtà, di fotografie ne scattò diverse; la più importante mostra una silhouette nera, leggermente ricurva all'estremità, circondata di mulinelli concentrici. Alla base della silhouette sembra apparire quello che potrebbe essere un corpo. Su un'altra foto, "l'oggetto" in questione è quasi sparito nell'acqua. Ad ogni modo nel 1994, sessant'anni più tardi, la foto fu smascherata dal Centro di Loch Ness come un falso: non era infatti un'autentica foto di Nessie, ma di un modellino creato aggiungendo a un sottomarino giocattolo una testa e una coda.
Il modellino era stato costruito da Christian Spurling, un amico di Wilson che era anche il genero di Marmaduke Wetherell, un cacciatore ridicolizzato dai vertici del giornale Daily Mail per essere, a sua volta, cascato in una bufala: inviato dal quotidiano a Loch Ness per indagare sul mostro, si fece ingannare da alcune finte impronte create grazie a un portaombrelli con alla base un piede di ippopotamo essiccato (allora diffusi trofei di caccia). La finta foto di Nessie fu un modo, piuttosto elaborato, di vendicarsi.[4] Wetherell fece poi affondare il modellino, che secondo alcuni si trova ancora da qualche parte nel lago.
« Piovigginava leggermente, il lago era grigio, il cielo era grigio e il colore della creatura era grigio scurissimo, in netto contrasto con lo sfondo più chiaro dell'acqua e del cielo. Il mostro era immobile in superficie, rivolto in direzione di Inverness. La lunghezza era di quasi dieci metri; è difficile valutare la distanza esatta che ci separava, tuttavia era abbastanza vicino a noi perché potessimo vederlo molto distintamente. C'erano tre gobbe, la più grande nel mezzo e la più piccola dietro il collo, che era lungo e snello, con una testa piccola e priva di tratti visibili. Immergeva spesso la testa nell'acqua, come per mangiare o forse semplicemente per divertirsi.
Quasi altrettanto celebre della foto del dottore, quella scattata nel 1951 dal boscaiolo Lachlan Stuart, mostra tre gobbe che emergono dall'acqua. Nel 1955, P. MacNab dichiarò di essersi fermato nei pressi del castello di Urquhart, che domina il lago, per scattare una foto, quando a un tratto sentì un rumore nell'acqua: ebbe appena il tempo di sostituire l'obiettivo con un teleobiettivo da 150 millimetri e un enorme animale uscì dall'acqua. MacNabb lo fotografò: la foto è interessante perché si vedono sia il mostro sia il castello. In confronto con l'altezza del castello, che è di venti metri circa, si può valutare intorno alla stessa lunghezza la parte emersa dell'animale, ma secondo alcuni la foto mostrerebbe due esemplari.
Infatti se la si esamina attentamente si può notare che le due gobbe non sono esattamente l'una sul prolungamento dell'altra: siccome la seconda è più piccola della prima, si è potuto pensare che si trattasse di un maschio accompagnato dalla femmina o di un giovane che seguiva la madre. Effettivamente, in varie occasioni dei testimoni hanno dichiarato di avere visto più animali insieme. Il guardiacoste Alexander Campbell asserì di aver visto il dorso di tre mostri apparire alla superficie del lago: il primo e il secondo erano nettamente più grandi del terzo, e mentre il movimento in avanti dei primi due era regolare, il terzo si muoveva a zig zag, come per divertimento.[7] Nel giugno del 1937, due allievi dell'abbazia di Fort August videro tre piccoli mostri, lunghi appena un metro, che fuggirono via quando essi cercarono di acchiapparli.[7]

Megalodonte 


Il megalodonte (Carcharodon megalodon o Carcharocles megalodon Louis Agassiz, 1843) è una specie estinta[1] di squalo di notevoli dimensioni, noto per i grandi denti fossili. Il nome scientifico megalodon deriva dal greco e significa appunto "grande dente". I fossili di C. megalodon si trovano in sedimenti dal Miocene al Pliocene (tra 23 e 2,6 milioni di anni fa).
La classificazione è oggetto di dibattito scientifico tra gli esperti. In passato questo animale è stato classificato nel genere Carcharodon, come l'attuale squalo bianco. Nel 1995 il nuovo genere Carcharocles (appartenente alla famiglia Otodontidae) fu proposto per classificare l'animale. Molti paleontologi ora appoggiano quest'ultima teoria.

È stato considerato un parente stretto del più noto, e tuttora vivente, grande Squalo bianco (Carcharodon carcharias), soprattutto per la grande somiglianza nella forma e nella struttura dei denti. Tuttavia, un numero crescente di ricercatori sta mettendo in discussione questo legame, abbracciando l'ipotesi che sia invece l'evoluzione convergente il motivo per cui squalo bianco e C. megalodon hanno una dentatura tanto simile. In ogni caso, l'aspetto e le dimensioni del C. megalodon sono ricostruiti proprio a partire da questa somiglianza.

Morfologia[modifica | modifica wikitesto]
Le dimensioni dei fossili ritrovati (per lo più denti lunghi fino a 17 cm, anche se pare siano stati ritrovati denti di 20 cm) fanno pensare ad un animale la cui lunghezza avrebbe potuto raggiungere i 18 metri. Le stime sul peso indicano che potesse raggiungere le 50-60 tonnellate. Basandosi sul metabolismo dello squalo bianco, si pensa che il C. megalodon avesse bisogno di mangiare in media un quinto del suo peso ogni giorno, cioè 8 tonnellate di carne. Possedeva un'apertura della mascella superiore ai 2 metri e pare che la sua dieta potesse includere anche le grandi balene.
Diffusione, abitudini e alimentazione[modifica | modifica wikitesto]

Vertebra fossile di balena, ritenuta stata tagliata in due da un morso di C. megalodon, i solchi visibili sarebbero tracce del morso
Da alcuni siti anomali di ritrovamento sulle coste orientali degli Stati Uniti d'America e nei Caraibi si è ipotizzato che le femmine di C. megalodon partorissero le loro "uova" in baie protette, con acque particolarmente basse; solo quando i piccoli raggiungevano dimensioni ragguardevoli si avventuravano in mare aperto.

Il C. megalodon era un predatore diffuso in tutti gli oceani dalle latitudini più meridionali a quelle più settentrionali; adatto a più ambienti e più climi (ma tendenzialmente prediligendo quelli caldi e temperati), probabilmente preferiva le zone relativamente costiere, in cui era facile incontrare i grossi mammiferi marini di cui certamente si nutriva (impronte di morsi, rinvenute su resti ossei fossilizzati, anche rimarginate, tenderebbero a confermare questa teoria).

Reperti di questo grosso squalo sono però stati rinvenuti anche in zone all'epoca di mare aperto, oppure in giacimenti situati in piccole isole remote dell'oceano pacifico e dell'Oceano Indiano, che testimoniano come l'animale vivesse anche in ambienti di mare aperto. Va però aggiunto che era, con ogni probabilità, un predatore specializzato nella caccia a poca profondità.

Il miocene è stato il periodo di massima diversificazione dei cetacei di grossa taglia (20 generi di balene contro i 6 attuali), ed ha conosciuto anche una grande diffusione di altre possibili prede (dugonghi e grossi sirenidi, tartarughe marine, pinnipedi di grossa taglia, pinguini di grossa taglia, altri squali predatori, squali balena, tonni); nelle acque fredde abbondavano gli antenati dell'attuale orca, in quelle calde invece regnavano i C. megalodon.
Cosa ha ucciso lo squalo più grande mai vissuto?
Gli studiosi ancora si interrogano sulla misteriosa estinzione del megalodonte, il gigantesco parente fossile dello squalo bianco dal blog Phenomena



Una mandibola fossile di Carcharoles Megalodon. Questo squalo aveva una bocca larga un metro e mezzo, abbastanza grande da inghiottire una piccola auto. 


Non riusciamo proprio a lasciare in pace il megalodonte. Da Lo squalo di Peter Benchley ai mostri che regolarmente affollano film di serie B, sembra impossibile resistere alla tentazione di evocare uno squalo così grande da poter tranquillamente ingoiare una persona senza disperdere in mare neppure una goccia di sangue.

Nonostante la nostra fascinazione nei confronti di Carcharocles megalodon, questo enorme parente estinto dello squalo bianco, sappiamo ancora pochissimo sulla vita e sulla fine del più grande squalo mai vissuto. Per cominciare, non abbiamo idea del perché l'ultimo megalodonte sia morto 2,5 milioni di anni fa.

Nella lunga storia dei pesci cartilaginei, Carcharocles megalodon rappresenta un capitolo di grande successo. E non solo a causa della mole del predatore e della sua supposta ferocia. Questa specie ha abitato le acque costiere dell'Oceano Indiano, dell'Atlantico e del Pacifico per circa 20 milioni di anni. Poche creature possono vantare un record simile, e ciò; rende la scomparsa dell'animale ancora più enigmatica.

Secondo la teoria più diffusa questo squalo mostruoso si sarebbe estinto a causa del passaggio a un clima più freddo. C. megalodon è generalmente considerato un cacciatore di acque calde e quindi, sostiene l'ipotesi, quando alla fine del Pliocene le temperature precipitarono, cetacei, foche e altri mammiferi marini di cui si cibava migrarono verso mari ancora più freddi, dove lo squalo non poteva seguirli.
Ma l'enorme squalo era davvero così condizionato dalle temperature? Per scoprirlo, la paleontologa Catalina Pimiento e colleghi hanno consultato il Paleobiology Database per analizzare la presenza di C. megalodon nel tempo relativamente al clima. E contrariamente a quanto si pensava, è assai improbabile che il freddo abbia "congelato" lo squalo fino all'estinzione.

A grandi linee la storia è questa: appena comparso, circa 20 milioni di anni fa, C. megalodon abitava soprattutto le acque dell'emisfero settentrionale. La sua popolazione si diffuse in quasi tutti gli oceani attorno a 15 milioni di anni fa, affermano nello studio Pimiento e colleghi, ma da allora in poi andò costantemente calando.

Tutto ciò accadde indipendentemente dal clima. Non sembra esserci correlazione, affermano i ricercatori, tra le testimonianze fossili di C. megalodon e i picchi sia verso l'alto che verso il basso delle temperature. Senza parlare del fatto che il megalodonte sembrava perfettamente a suo agio in acque la cui temperatura variava dagli 11 ai 27 gradi, temperature sempre presenti sul pianeta dai suoi tempi a oggi.

Se non è stata l'acqua più fredda, allora cosa ha ucciso allora il megalodonte? Non lo sappiamo ancora con certezza. Persino oggi, in un'epoca in cui possiamo assistere "in diretta" alla scomparsa delle specie, spesso è difficile ripercorrere all'indietro il percorso dall'estinzione ai primi segnali di crisi. Nel caso del megalodonte però, Pimiento e i suoi colleghi qualche svolta cruciale l'hanno individuata.

Sappiamo che il megalodonte ha imboccato la strada che porta all'estinzione alla metà del Miocene. In questo periodo si verificano due eventi importanti, ricordati sia in precedenza dal paleontologo Dana Ehret che dagli autori dello studio. Mentre crolla la diversità fra i cetacei, compaiono sulla scena concorrenti formidabili del megalodonte: grandi squali antenati dello squalo bianco, e capodogli che cacciano e si comportano come le orche odierne. Questa tendenza continua per tutto il Pliocene, con un numero sempre inferiore di specie di grandi misticeti e una sempre maggiore varietà di predatori con cui i giovani megalodonti competevano per il cibo. Insomma, sempre meno cibo a disposizione per un numero maggiore di predatori.

Il caso non è ancora chiuso. Tutto ciò che sappiamo dal megalodonte viene dai suoi denti, da qualche vertebra, e da qualche segno di morso: non abbastanza finora per comprendere appieno la complessa biologia dell'animale, o per determinare il ruolo dei misticeti sia nella sua dieta che in quella dei predatori con cui era in competizione.

Quel che è certo è che il megalodonte è estinto. Le ultime tracce fossili risalgono a 2,5 milioni di anni fa, e di sicuro ci accorgeremmo se - come qualcuno sostiene - lungo le nostre coste si aggirasse una popolazione di squali lunghi 15 metri. Ma la sua scomparsa è ancora un mistero, che solo le testimonianze fossili potranno svelare.